Categoria: Uncategorized

  • Il Carménère è vivo!

    Il Carménère è vivo!

    Non riesco a immaginare la faccia dei cileni quando, dopo aver chiamato per anni e anni “Merlot” quello che in realtà erano uve Carménère, hanno finalmente scoperto di essersi sbagliati per tutto il tempo!

    Si può dire che la storia del Carménère in Cile inizi proprio con un errore. Portato dai vignaioli europei che migrarono in Cile intorno al 1850, il Carménère venne piantato accanto a Merlot e Cabernet. Per qualche motivo fu confuso con questi ultimi fino al 1994, quando un enologo francese, dopo alcune analisi del DNA, rivelò al mondo la verità!

    Ma cos’è questo Carménère? Conosciuto anche come “Grand Vidour”, fu coltivato per la prima volta in Francia ma scomparve dopo l’epidemia di fillossera nel XIX secolo. Il nome deriva da “carminio”, un tipo di rosso.

    Si tratta infatti di un vitigno a bacca rossa, con aromi di lampone e prugna, peperone verde, paprika e, nella versione affinata in legno, note di vaniglia.

    È un vino di medio corpo, normalmente fresco e fruttato da giovane, con acidità, tannini e alcol moderati. Condivide con il Cabernet le note verdi, speziate e pepate, mentre con il Merlot quelle di frutti rossi. Con l’invecchiamento, il Carménère può sviluppare sentori molto terrosi e di cuoio.

    Oggi il Carménère rappresenta circa il 10% della produzione vinicola cilena e ben l’85% del Carménère mondiale proviene dal Cile. Una curiosità: il secondo paese produttore di questo vitigno è la Cina, dove è chiamato “Cabernet Gernischt”.

    Quando ho viaggiato in Cile nel 2023, ho avuto l’occasione di visitare le due principali regioni vinicole dove si coltiva il Carménère: la Valle de Colchagua e la Valle del Maipo. In generale, i vini di Colchagua risultano più verdi e speziati grazie all’altitudine, mentre quelli di Maipo sono più fruttati.

    A Maipo ho visitato una delle cantine più antiche del paese, la Viña Santa Rita. Dopo un breve giro in carrozza tra i vigneti, siamo arrivati alla targa che segna il luogo in cui il Carménère venne riscoperto.

    Ho poi degustato quattro diverse espressioni di Carménère, per lo più dalle collezioni premium della cantina (incluso il loro prestigioso Pewën).

    Personalmente penso che, parlando di vino, il Cile sia un paese spesso frainteso. È il quarto esportatore di vino al mondo, ma ciò che esporta non rappresenta certo la sua espressione migliore.

    Se sei interessato a sapere dove trovare i vini migliori in Cile e quali posti evitare, scrivimi a: sipwithcarlotta@gmail.com

    Salud!

    [Tutte le foto sono state scattate durante il mio tour del Carménère alla Viña Santa Rita, settembre 2023. Per maggiori info sul tour: https://santaritaonline.com/tour/carmenere/]

  • Italia vs Baja California: una storia di somiglianze e contrasti

    Italia vs Baja California: una storia di somiglianze e contrasti

    Il vino messicano sta diventando una vera e propria tendenza, soprattutto negli Stati Uniti – e in California più che in ogni altro stato, grazie alla vicinanza geografica.

    Ma qual è la storia dietro a questa nuova regione vinicola e che legami ha con l’Italia?

    Il Messico, come tutti i Paesi del Nuovo Mondo, scoprì la vite durante il periodo della colonizzazione, a partire dal 1520. Furono portati soprattutto vitigni spagnoli dai conquistadores e successivamente dai missionari.

    Oggi però il Paese è un crogiolo di altre varietà europee, francesi e italiane in particolare, introdotte principalmente dagli immigrati. È solo all’inizio del 1900 che si iniziano a vedere i primi segnali di una viticoltura moderna, soprattutto nella Valle de Guadalupe, che da sola rappresenta l’85% della produzione vinicola messicana.

    Tra i primi a fondare una cantina lì fu l’immigrato italiano Angelo Cetto nel 1926, che oggi, con la sua L.A. Cetto Winery, è responsabile di metà della produzione vinicola nazionale. Dopo di lui arrivò un altro italiano, Camillo Magoni, nel 1965, che iniziò a collaborare con L.A. Cetto per coltivare il Nebbiolo in Baja California. Oggi possiede anche una sua cantina: la celebre Casa Magoni.

    Un altro italiano che oggi è una star della Valle de Guadalupe è Paolo Paoloni, con i suoi 38 ettari di Villa Montefiori, che dagli anni ’90 comprende vigneti, sala degustazione e hotel.

    E pensare che nel 2006 in Messico c’erano meno di 25 cantine, mentre oggi il numero supera le 150. Se poi aggiungiamo hotel e ristoranti legati al vino, si arriva a oltre 400 strutture.

    Ma che gusto ha il vino messicano, soprattutto se paragonato a quello italiano?

    Abbiamo recentemente organizzato un evento in collaborazione con Vino Migrante e All About Baja Wines a San Diego per confrontare vitigni italiani con le stesse varietà coltivate in Messico.

    Insieme a Veronica Carrillo di All About Baja Wines.

    In generale, il clima in Messico è più caldo perché più vicino ai tropici. È comunque possibile coltivare uva grazie alla siccità, ma il risultato sono acini molto maturi e zuccherini, che danno vini corposi e con un grado alcolico più elevato.

    Prendiamo ad esempio lo Chardonnay. È un vitigno molto adattabile, che cresce bene sia in climi freschi che caldi. Tuttavia, il profilo aromatico cambia. Durante l’evento abbiamo assaggiato un Wegerhof Leite Chardonnay DOC (Trentino Alto Adige) a confronto con il Cava Maciel Venus Blanco. Il primo, proveniente da una zona fresca, ha mostrato grande acidità e note agrumate, mentre lo Chardonnay messicano era più strutturato e ricco di aromi tropicali.

    Anche le tecniche di vinificazione sono diverse nei due Paesi. I produttori italiani tendono a privilegiare vini più freschi e puliti, con un uso limitato del legno in cantina. Durante l’evento abbiamo confrontato un Alpi Retiche Nebbiolo IGT con il Nebbiolo di Zanzonico Wines. Il primo, dalla Lombardia, si presentava leggero al palato, con note di piccoli frutti rossi freschi ed erbe aromatiche. Le uve erano state infatti fermentate in acciaio e poi affinate in cemento e grandi botti neutre. Il Nebbiolo messicano di Zanzonico, invece, risultava molto più intenso: dopo 24 mesi in barrique nuove, gli aromi di vaniglia e affumicato dominavano sul frutto e tagliavano l’acidità.

    Il vino messicano è senza dubbio un’industria più giovane rispetto a quella italiana, ma negli ultimi 10 anni ha fatto enormi progressi! Ecco perché sta diventando una meta enoturistica sempre più popolare.

    Bravo, Messico!

    [Se vuoi saperne di più sulle degustazioni in Messico, scrivimi a sipwithcarlotta@gmail.com. Stiamo anche organizzando un tour pubblico del vino in collaborazione con Vino Migrante il 2 marzo 2025: https://www.eventbrite.com/e/1225537117509]


    Vuoi che ti proponga anche un titolo in italiano che sia accattivante per un articolo di blog, sullo stile del precedente “Screw cap, to love or not to love”?

  • Tappo a vite: amarlo o odiarlo?

    Tappo a vite: amarlo o odiarlo?

    Di recente sono stato in Nuova Zelanda, dove il 90% delle bottiglie di vino è chiuso con tappi a vite. Non solo nei supermercati o nei bar economici, ma anche nelle cantine di alto livello e nei ristoranti raffinati. Così, durante il mio soggiorno ho iniziato a fare domande in giro e ho letto anche un po’ di materiale sull’argomento in rete.

    I tappi a vite sono un bene o un male per il vino?

    Una cosa certa è che i tappi a vite sono più sostenibili, più economici, più facili da aprire e richiudere, e inoltre evitano alcuni difetti del vino come il “cork taint” (un problema che colpisce i tappi di sughero e provoca cattivi odori nel vino).

    I pionieri del movimento dei tappi a vite furono gli australiani, che nel 2000 decisero di imbottigliare l’intera produzione di Riesling della Clare Valley esclusivamente con questo sistema. Un anno dopo, un gruppo di produttori neozelandesi seguì il loro esempio fondando la New Zealand Screwcap Wine Seal Initiative.

    Dopo studi scientifici e degustazioni alla cieca si scoprì che i vini chiusi con tappo a vite non solo avevano lo stesso gusto di quelli con tappo di sughero, ma nella maggior parte dei casi risultavano più freschi, più costanti e privi di difetti.

    La principale perplessità riguardo ai tappi a vite è sempre stata la maturazione: quel periodo in cui il vino evolve in bottiglia, sviluppa nuovi aromi e si ammorbidisce.

    Secondo i sostenitori del sughero, il tappo tradizionale è migliore perché lascia “respirare” il vino, cioè permette un minimo passaggio di ossigeno, considerato essenziale per una maturazione più armoniosa e per ottenere un profilo aromatico desiderabile. I sostenitori del tappo a vite, invece, sostengono che l’ossigeno non sia necessario: anzi, l’assenza di ossigeno aiuta il vino a restare stabile e fresco più a lungo.

    Di certo, industrie vinicole relativamente giovani come quelle di Nuova Zelanda e Australia stanno aprendo la strada. Negli Stati Uniti e in Europa invece c’è ancora un po’ di scetticismo, soprattutto per questioni estetiche e per come l’uso del tappo a vite potrebbe influire sul servizio al ristorante.

    Ma ci sono segnali incoraggianti: secondo i ricercatori, almeno il 30% del vino nel mondo è ormai imbottigliato con tappi a vite, e questa tendenza è destinata a crescere sempre di più in futuro.

    [Foto scattata da Ata Rangi a Martinborough, NZ, durante la mia degustazione di Pinot Noir]